
TUTELARE UNA VITA, NELL’INFERNO DI UNA INFANZIA
TUTELARE UNA VITA, NELL’INFERNO DI UNA INFANZIA
Leggo di una bambina di nove anni ripetutamente violentata dal padre dall’età di sei anni quando i genitori dovrebbero solo cantare ninne nanne e raccontare favole, quando tuo padre è sempre più il tuo eroe e la mamma la tua principessa. A quell’età non sai ancora di sesso, se non il tuo che cominci a scoprire inevitabilmente e fortunatamente, non sai d’amore se non quello dei tuoi genitori, fratelli e sorelle e non sai di violenza a meno che non ti capiti di assistere o partecipare a qualche scaramuccia tra i giochi . O perlomeno questo è ciò che dovrebbe vivere un/una bambino/a a quell’età. Questa creatura viveva, invece, in un limbo, dove un padre in preda ai suoi istinti più feroci, violava il suo corpo e la sua anima innocente, insegnandole esattamente il contrario di ciò che una bambina dovrebbe sapere per cominciare a costruire oltre la sfera affettiva “extra-genitoriale”. Quella affettività che la farà innamorare, che le farà distinguere l’amore da tutti gli altri sentimenti, che la farà diventare una donna. Sinceramente dovrei sforzarmi nel pensare a cosa può crescere nell’anima di una bambina violentata ripetutamente e soprattutto dal padre. Dovrei ricorrere ad una immaginazione contro la natura umana per comprendere cosa, di notte, nel buio della sua stanza e al silenzio delle sue lacrime, quella bambina riuscisse a pensare. Chissà se ha compreso che ciò che stava subendo fosse la violenza delle più atroci oppure un normale atto di affetto con chi si “spacciava” come suo padre. Si, perché un uomo, e ancora di più padre può solo pensare di simulare questo ruolo nel momento in cui si appresta a violare il corpo della figlia. Di quale paternità si cinge la sua persona nel momento in cui “possiede” una bambina, per di più sua figlia? Di quale rispetto può circondarsi e circondare nel momento in cui desidera il suo sangue e se ne appropria nel modo più infame per un uomo? E non si dica che le condizioni di povertà ed emarginazione siano terreni fertili per reati di questa portata: la mancanza di un tozzo di pane o di un paio di pantaloni o l’analfabetismo o qualsiasi altra situazione di precarietà fisica e morale non può legittimare una violenza perpetuata da un genitore a carico di un figlio, in virtù di un legame indiscutibile come nessun altro, a meno di palesi disturbi psico-emotivi di certo non esclusivi dei ceti sociali meno abbienti. Se allo stato dei fatti raccontati dalla cronaca, lanciarsi in considerazioni di etica e morale risulta pressoché grottesco , la scomunica giunta ai medici che hanno operato un aborto sul corpo di una bambina ancora troppo bambina per essere donna e ancor troppo bambina per essere madre risuona come un atto ancora più al limite della realtà. E questo perché, se l’Istituzione ecclesiastica risulta ancora troppo morbida con i suo adepti, alcuni avvezzi a consumare atti di pedofilia anche all’interno delle sacre mura , dall’altro lato non disdegna una tempestività fuori dal comune, forse ancor più rapida dei miracoli di moltiplicazione e di resurrezione operati da nostro Signore, nell’inviare anatemi contro coloro i quali contravvengono alle 10 regole delle tavole di Mosè. Credo che chiunque, in termini generali, aborrisca la soppressione di una vita, al di là del professare o meno i principi del buon cristiano che non sono quelli squisitamente di carattere religioso quanto quelli generati dalle dotazioni di serie (“competenze” emozionali e razionali )allorquando utilizzate semplicemente e senza sforzi eccessivi. Tuttavia, tutelare una vita non significa solo preservarla da morte sicura in qualsiasi stadio essa si trovi, ma garantirne dignità in primis. E credo anche che una Istituzione come quella della Chiesa dovrebbe adoperarsi affinché, oltre a sostenere il diritto ad un principio sacrosanto come quello dell’esistenza , non siano dimenticate tutte le altre vite sottoposte a crudeltà inimmaginabili. Perché, dunque, scomunicare i medici abortisti e non provvedere a quella bambina violentata? Perché incriminare l’atto terapeutico di un medico che si è trovato di fronte ad una delle scelte più drammatiche della sua vita professionale a prescindere dalle sue convinzioni più o meno cristiane? Perché non scomunicare il vero “assassino” di questa vicenda? Perché pensare ad una vita, forse ingiustamente soppressa, e non ad un’altra vita ancora più ingiustamente vessata? E’ vero che ogni vita ha un suo valore e non esiste una graduatoria tra le esistenze e un principio di selezione tra chi può e non può vivere, ma è pur vero che gli integralismi non sono garanzia di alcunché e tantomeno della stessa esistenza visto e considerato che salvare il “bambino di quella bambina” avrebbe comunque operato una scelta di “vita” a scapito di un’altra. Penso che le leggi dell’uomo, pur mosse da principi sani e “cristiani”, nella quasi totalità dei casi non tendano se non molto raramente alla giustizia nella sua accezione più pura, peccando di “distinguo” superflui e lontani dalla realtà. Invocare quella “divina” pare l’unica possibilità……sperando che non si faccia attendere a lungo. DI TERESA LETTIERI IL 30/01/2017