
SFOTTONO I CERVELLI IN FUGA E SE NE FOTTONO DEL FUTURO
SFOTTONO I CERVELLI IN FUGA E SE NE FOTTONO DEL FUTURO
Se il nostro Ministro del Lavoro, con l’autorevolezza della quale può essere capace solo un rappresentante di tale levatura, ha trattato cinicamente il tema dei “cervelli” in fuga dal nostro Paese (nonostante la smentita delle ore successive per rimediare alla gaffe), la Littizzetto, dall’alto del suo opinionismo domenicale, ha ritenuto di riaprire brevemente l’argomento che pare stia “a cuore” ad entrambi. In verità, su di un tema come il lavoro, quella del Ministro è passata più come una beffa verso chi, sovente dotato di doppia laurea, master, stages e curriculum da capogiro si vede obbligato al piano B (chiamarlo così è quasi un eufemismo).Questi cittadini, che siano o meno “cervelli in fuga” (definizione abbastanza “sfottente”, lasciatemelo passare) sono stati liquidati dal Ministro del Lavoro come un dettaglio trascurabile , quasi una benedizione per la nostra amministrazione sollevata da un peso in meno. La “Lucianina” bacchettando con dolcezza (?) il Ministro, reo di aver sottovalutato il grande valore dei giovani che lasciano il nostro paese per motivi lavorativi (boh!),ha sottolineatola scarsa apertura mentale dei suoi connazionali inconsapevoli del significato di “globalizzazione”, relegato ad una mera circolazione di merci (come i cavetti dell’iphone), e di quanto l’apertura delle frontiere sia vantaggiosa soprattutto per i famosi “cervelli”.Ora, premesso che il concetto di “globale”, se pur non all’umanità tutta, credo sia chiaro anche alle formiche rosse del Nepal che non si associ solo al trasferimento di banane o noci di cocco. Premesso che, anche chi ancora non ha compreso a fondo cosa significhi, praticamente sappia che la libera circolazione di idee, pensieri, esperienze, competenze, tradizioni, probabilmente sia la vera mission del processo di globalizzazione, a parte l ‘import-export delle nocciole della Turchia. La domanda che mi sorge spontanea, è la seguente: è presumibile che intercorra un abisso tra chi sceglie liberamente di condurre una esperienza lavorativa in altro stato europeo o extraeuropeo e chi , al contrario, è costretto a spostarsi perché riesce solo a rimediare contratti di pochi mesi o ancora peggio lavori “a nero” nella sua terra? E’ ancora presumibile che un giovane o meno giovane laureato e/o specializzato (lo fa nel mentre cerca lavoro quindi si specializza talmente che alla fine non serve!) possa auspicare di trovare almeno nella sua nazione le condizioni per poter svolgere una attività lavorativa nel pubblico quanto in maniera autonoma, senza invocare il mantra del “global forever” e senza per questo essere accusato di non esserlo? A me pare che la problematica che governa la scelta di recarsi oltre i confini del proprio Paese, attenzione, non in un’altra città (che è molto diverso) è racchiusa proprio nella gestione del capitolo “lavoro” e ancora prima “istruzione”. In Europa siamo quelli che terminano più tardi il ciclo di studi, a dispetto delle psudoriforme partorite dal dicastero del “sapere e ricerca” (ditemi chi è in grado di lavorare dopo una laurea triennale). Se guardiamo al diploma, le scuole professionali ancora stentano a raggiungere una qualità di formazione che consenta l’accesso immediato al mondo della produzione, sebbene l’alternanza “scuola-lavoro” stia diventando una caratteristica comune a tutte le scuole medie superiori. I programmi di studio, dopo l’auspicato snellimento delle materie che venivano riproposte più volte lungo la carriera universitaria, almeno per alcune discipline, non hanno agevolato o specializzato meglio i discenti. In sintesi, uno studente laureato va formato “al lavoro” per cui la carriera di apprendista stregone si arricchisce di annualità, spesso non retribuite ( o male, o poco). Cosa ci manca? Non siamo sufficientemente competitivi rispetto ad un inglese o danese o australiano? E su cosa dovremmo lavorare per diventarlo? La sfida della competitività ormai investe qualsiasi settore, tuttavia, ho sempre pensato che investire nella competitività di un comparto imponga necessariamente l’acquisizione di questo valore molto prima di accedervi. Ergo, per diventare un imprenditore/professionista/ricercatore/(etc.) competitivo è indispensabile che le competenze acquisite, la formazione seguita e tutto ciò che attiene alla professionalità siano di elevato valore rispetto allo standard (dove per standard non si intende quello del proprio territorio, per inciso, ma quello della famosa globalizzazione). Se poi, si considera la velocità con il quale le informazioni e le conoscenze si specializzano grazie alla ricerca si comprende bene quanto continuo debba essere il processo di formazione. Ovviamente, se da un lato questo bisogno rappresenterebbe il leit-motiv di qualsiasi professionista, dall’altro l’istituzione scolastica dovrebbe mettere in atto tutte le condizioni affinché ciò avvenga, suggerendo ed agevolando una formazione costante, performante e che tenga conto della tempistica di base sulla quale si gioca la carta della competitività, oltre che sulla qualità della conoscenza.Sul fronte lavoro, politiche che non sostengono la creazione di nuovi posti, ma soprattutto di nuove opportunità lavorative perché gravate da una fiscalità imbarazzante, autrice di un mercato parallelo che sotto-remunera la forza lavoro con i rischi connessi e l’assenza di diritti che ogni lavoro richiede per dignità, innanzitutto, e quindi per legge, aggrava una situazione che riporta i livelli occupazionali su valori scandalosi per un paese come l ‘Italia dove i “cervelli” abbondano ma si illuminano solo oltre confine. Sottovalutare, poi, le dinamiche che si stanno consolidando nella varie realtà regionali del nostro paese, e che afferiscono ai settori chiave della nostra economia (per caso penso all’agricoltura), sottovalutando o sottostimando la loro vera struttura ritenendolefenomeni transitori, significa elaborare politiche inadeguate e dirottare le risorse lavorative di cui dispone la nazione verso altre realtà, forse meno appetibili ma remunerative. Insomma per non far scappare i “cervelli” è ora di farli funzionare!
DI TERESA LETTIERI IL 10/01/2017