
SCATOLE VUOTE, RECUPERIAMOLE
SCATOLE VUOTE, RECUPERIAMOLE
La parola laboratorio, su una come me che si occupa di design, non solo come ricerca di forme, linee, colori, materiali, ma anche come creazione attraverso la manipolazione di questi elementi, esercita un fascino senza paragoni. Non è solo ciò che trovi dentro, ma quello che senti mentre vi entri. Anche un laboratorio silente, fermo dopo una giornata di operosità non è mai muto. Continua il suo lavoro, al buio della notte, con i colori che si asciugano assumendo la loro intensità definitiva, con la carta che si rinsecchisce alla colla bianca che diventa trasparente, al legno e al metallo che perdono la loro forma e si sottomettono all’idea di chi li ha formati. E se per caso entri all’improvviso percepisci presenze, movimenti, sensazioni a seconda di ciò che avviene, senza distinzione per alcuna forma di creatività. Sono laboratori o lo sono stati anche quei contenitori che continuano a vivere nonostante nessuno li abiti più, nonostante l’assenza di attività non si manifesti nella sua forma tradizionale, quella che li ha identificati come tali.

Ogni scatola abbandonata rimane un laboratorio per il solo fatto di aver accolto presenze dedite al “fare” , più o meno specifico, per sé o per la collettività, ed ogni scatola sebbene vuota può continuare silenziosamente quella mission oppure ospitarne delle altre, spesso celatamente. E’ accaduto, ad esempio, alle Officine Reggiane di Reggio Emilia, quando i primi writers vi entrarono clandestinamente trovandovi, nel 2011, tutto intatto così come la fabbrica era stata lasciata nel primo dopoguerra. Da laboratorio bellico a laboratorio di “street art” dove l’anima del posto non è rimasta a vagare tra i vecchi macchinari ma ha ripreso a vivere tra le rappresentazioni dei creativi che hanno reinterpretato i muri scrostati con le proprie emozioni. L’area che attualmente rientra in un progetto di riqualificazione è stata ripresa da un fotografo artista che ha collezionato le immagini in un libro e in una mostra visitabile a Reggio Emilia fino al 30 aprile. Di storie come queste in Italia e non solo ce ne sono tante, tantissime, più o meno note a seconda della fruibilità che alcuni di questi contenitori hanno avuto per interesse di privati o di amministrazioni che hanno deciso un recupero delle strutture al fine di destinarle alla collettività, quasi sempre, per attività di vario tipo.
Nella nostra città le ricognizioni dei siti abbandonati da svariato tempo si sono arricchite di aggiornamenti ma di rado hanno segnalato il recupero dei medesimi. Tanti sono gli esempi, dalla vecchia caserma dei Vigili del Fuoco a Rione San Rocco, all’ex-Dispensario in via vaccaro, al cinema Ariston, al vecchio ospedale nei pressi del Principe di Piemonte tra alcuni. In rare occasioni, sono stati snodi di vari uffici provinciali o comunque di enti, nella maggior parte dei casi hanno continuato a sostare in attesa di iniziative che per quanto millantate non hai trovato una seria realizzazione. Sono diventati dei mostri, spesso avvolti dalla vegetazione che tende a svelarli o meno a seconda delle stagioni, dei trofei caduti sotto il peso di vicissitudine complicate dal post- terremoto e dalla burocrazia, dei musei a cielo aperto del vintage nostrano.
Recentemente, un gruppo di ragazzi ha occupato il vecchio palazzetto del Coni a Parco Montereale per rigenerare secondo una loro personale ottica la struttura ripulendola e facendola risorgere a nuova vita con una serie di iniziative. Superando le motivazioni, più o meno discutibili, sull’uso della cosa pubblica rimane un dato oggettivo che è quello del bisogno della popolazione di recuperare luoghi che per ognuno hanno rappresentato un pezzo della propria vita ( e lo si è visto dalla partecipazione di molti cittadini alle attività dei giovani Anzacresa) e che giacciono senza che la medesima amministrazione se ne occupi restituendo una identità che non è quella della sola struttura ma di chi l’ha vissuta a vario titolo, chi l’ha solo visitata e chi ci è passato semplicemente davanti ogni giorno perché sul suo percorso. Senza trascurare che il bisogno di una riqualificazione muove non solo da esigenze strettamente di sicurezza dei fabbricati che diventano fatiscenti con il trascorrere del tempo, ma anche da esigenze sociali e culturali qualsiasi sia la destinazione pensata per ognuno di essi. L’aggregazione che possono generare, fosse per il solo fatto di rappresentare anche un banale transito di gente che ne fruisce per motivi ameni, non può che diventare l’attrattore di interessi, obiettivi, modi di pensare e di essere dai quali avviare percorsi collettivi e individuali capaci di mischiarsi esattamente come i colori di una tavolozza, i fili di un telaio o le corde di una orchestra di swing.
DI TERESA LETTIERI IL 16/03/2017