
NON CHIAMIAMOLO “FEMMINICIDIO”
NON CHIAMIAMOLO “FEMMINICIDIO”
In una sera di tarda primavera sono stata io ad essere vittima di un femminicidio. Che parola atroce. Non mi piace. Perché anche in questa parola c’è una distinzione. E’ l omicidio di una “femmina”. E’ una catalogazione, è come essere schedata e nemmeno a scuola mi piaceva essere “immatricolata”. I giornali che oggi parlano di me, della mia morte, di come mi ha uccisa il mio fidanzato. Parlano della sua gelosia morbosa, del fatto che l’avessi lasciato e stessi frequentando un altro ragazzo, parlano di fatti accaduti, di testimoni presenti alle discussioni, della mia preoccupazione. Oggi parlate tutti, tutti voi sapete, sapete cosa sentivo, pensavo, soffrivo. Il giorno dopo tutti sanno, tutti parlano, tutti hanno da dire la loro. Il giorno dopo sanno anche la marca delle mie mutande e sono solleciti nel riferirla. Purtroppo le mie mutande come i mie vestiti, i miei capelli, la mia pelle è bruciata via con me dopo che il mio fidanzato mi ha dato fuoco. Lui non ha solo bruciato me. Ha bruciato anche la sua anima, molto peggio del mio corpo. Da ora in poi tutta la sua vita brucerà. E brucerà tutti i giorni, giorno per giorno, attimo per attimo , secondo per secondo. E tutti i giorni penserà a quello che ha fatto. Lui morbosamente ossessionato continuerà la sua vita da ossessionato. Non sarà l’ unico, però. Ora conosco cosa vuol dire essere vittima di un femminicidio, sò quanto fa male, ne conosco il dolore, non solo fisico. Conosco il dolore di una coscienza azzerata, di un’anima massacrata , di un corpo deturpato. E come me, conosco il dolore di tante altre ragazze, donne, mamme e mogli. Un dolore che non sapevo esistesse, che a 22 anni non metti in conto e che ignori finchè non lo attraversi.“ Sara, Francesca, Giovanna, Claudia, Maria, Roberta……….
Ci siamo dovuti inventare il termine “femminicidio” perché si prendesse atto di un fenomeno non solo in crescita, ma anche determinato da particolari connotati, sintomo di una degenerazione sociale oltre misura alimentata da retaggi culturali (alla quale se ne sono aggiunte purtroppo altre) nonché diretto verso una precisa categoria. Come se non bastasse l’omicidio a rendere già drammatico il fatto in sè e ci fosse bisogno di circoscrivere il crimine ad un preciso gruppo,“privilegiato”,perché si potesse avere contezza della gravità. Perché abbiamo bisogno di classificare, sclassificare, schedare, archiviare, identificare,affinchéqualcosa possa attecchire alla pellaccia e all’anima.
Ma “femminicidio” non classifica, anzi. “Femminicidio”taglia con un bisturi solo i titoli che compaiono sulle testate dei giornali come quando si rifilano le figurine per incollarle, privandole dei contorni, senza sapere che sono i margini saltati la parte più importante di quella tragedia. Leggo di Jennifer, accoltellata per aver lasciato il compagno, Sara, incendiata dal fidanzato, ma ho letto di Vanessa, stessa sorte, di Elisa uccisa dal corteggiatore e Maria, Monica e Francesca……..Di queste donne ne abbiamo sezionato l’immagine, il loro vissuto, all’indomani della scomparsa per mano di un presunto amante, tratto dalla voce del verbo amare, ovvero curare, o ancora condividere. Amore e morte. Quanto risulta assurdo questo connubio, quanto è difficile associare le due parole fino a che non accade che si ritrovino “appiccicate” di sangue in un ambiente familiare, per strada o su una panchina del parco. Mi chiedo, allora, se l’immagine della donna uccisa, stuprata, offesa, sia quella giusta da fissare all’indomani dell’episodio delittuoso, qualunque esso sia, oppure sia altro da considerare, i famosi contorni di quella donna, chi sosteneva di amarla ed in realtà ne reclamava solo il possesso. O mia o di nessuno.
Mentre viviamo, di certo, nessuna di noi pensa al suo femminicidio. Piuttosto legge, ascolta, osserva quello di altre, vittime di una violenza che poco ha a che fare con l’amore millantato dal partner. Ma non ignoriamo il femminicidio perché non potrà accaderci. Lo ignoriamo perché creiamo sempre un certo distacco tra ciò che accade ad altri e ciò che ci accade, vuoi per difesa (a me non accadrà), vuoi per tutelare la propria storia (mi ha dato uno schiaffo ma solo una volta), vuoi per ragioni che ognuna di noi ritiene strettamente personali (come faccio a raccontarlo e che vuoi che accada) e che nulla hanno a che vedere con l ‘ipotesi di un femminicidio, isolandoci quasi completamente dalla reale motivazione di una violenza che ritorna ad inchiodarci all ’accadimento successivo. Noi, in realtà veniamo ammazzate ogni volta che una donna viene uccisa “per amore” , ogni volta che ognuna di noi viene condannata dalla prepotenza di un uomo, nel preciso istante in cui subìsce offese e umiliazioni. E veniamo uccise mentre accompagniamo i nostri figli a scuola, mentre cuciniamo, mentre lavoriamo. Il femminicidio non è l’ omicidio di una donna, è l ‘omicidio di tutte le donne che non trovano il coraggio di scappare, di denunciare, di ribellarsi, di farsi aiutare, ma anche di cominciare quel percorso di sensibilizzazione all’interno del proprio sé e della propria coppia che può minare il concetto di possesso e proprietà esercitato dal partner, a vantaggio di una reale costruzione affettiva, o diversamente meditare l’allontanamento da un rapporto malato. Riempire di contenuti i vuoti che accompagnano la vita di ciascuna attraverso il supporto, il confronto, la condivisione con chi ha attraversato esperienze analoghe e chi può fornire le competenze adeguate a tal fine può rappresentare una delle opportunità che attualmente consente alle donne in difficoltà di uscire da una spirale pseudoaffettivache spesso intrappola nel tentativo di colmare quegli stessi vuoti. Si tratta, tuttavia, di rieducare l’intera società civile a quei sentimenti “scontati” che poi così scontati non lo sono nel tentativo di superare quella “scodifica” quasi genetica che da sempre ha affidato all’uomo un ruolo “padronale” intriso di prepotenza, dominio e conquista legati più al suo status che alla reale essenza di “uomo”.
Recentemente si è parlato ancora di violenza sulle donne, in occasione di una giornata internazionale istituita per contrastare qualsiasi forma di sopruso. Ancora una momento dedicato al genere femminile che racchiude, nonostante le manifestazioni, le conferenze, i seminari, gli spettacoli teatrali, le iniziatiche simboliche adottate, un profondo sgomento verso la difficoltà di arginare i continui atti di violenza fisica e psicologica che spesso non hanno nemmeno il tempo di essere denunciati. O che vengono sottaciuti per rispettare le “regole” che ci hanno insegnato oppure sopportare la trappola che ci ha incastrato. E anche in questa occasione, i tentativi di generalizzare la violenza di “genere” non sono mancati, perché nelle generalizzazioni ci difensiamo confondendo i contorni della realtà.
Se penso alle “quote rosa” sorrido amaramente. Una quota per essere riconosciuta, per entrare a far parte dei processi decisionali della società civile, per rappresentare la “parità di genere”. Un’altra parola per essere marchiate. Un’altra parola per essere dimenticate.
DI TERESA LETTIERI IL 06/12/2016