MIGUEL ZOTTO, LA LEGGENDA DEL GAUCHO LUCANO
MIGUEL ZOTTO, LA LEGGENDA DEL GAUCHO LUCANO
Per apprezzare un ballo come il tango non è sufficiente osservare la precisione dei passi, la sincronia delle figure e l’armonia di una coreografia. Per tentare di comprenderlo bisogna superare i corpi e guardare le anime, quelle che possono incrociarsi all’angolo di una strada di Buenos Aires come su di un palcoscenico di una piccola città, dove si concedono solo perché si stanno offrendo reciprocamente. Potrebbero anche farlo in silenzio, senza una melodia, tanto è ciò che si dicono e senza alcuna presenza perché si bastano l’uno all’altra. Ma il tango è una poesia musicata, una melodia struggente affidata ad una strumentazione di pochi elementi che si racconta in mille modi. Da spettatrice di un evento emozionante come quello che si è tenuto domenica 12 marzo a Potenza sul “legno” del Conservatorio Gesualdo di Venosa, penso che solo una personalità come quella di Miguel Angel Zotto poteva rappresentare il senso profondo di questa danza. Lui, la leggenda del tango, ha origine lucane, “emigrate” in Argentina molti anni fa da un paesino della provincia di Potenza, Campomaggiore, e si sa, i lucani sono stati capaci di affermare quella tenacia, quella determinazione, quel senso di “appartenenza” alla propria terra ovunque, mixandolo con le tradizioni locali senza privarlo di quella identità che lo rendono riconoscibile in qualsiasi angolo del mondo.

E nel suo spettacolo, il messaggio di modernità e coralità del ballerino non si è fatto attendere, aprendosi al pubblico potentino con una compagnia che ha rappresentato una tradizione coniugandola attraverso le radici di un popolo, la storia di genti. Una storia fatta di emozioni che ad ogni esibizione hanno assunto una forma, un colore, un odore diverso volando tra gli Indios del Nuovo Mondo ai gauchos delle pampas sudamericane per approdare tra le movenze appassionate degli interpreti della serata. Due stelle, Miguel e Daiana Guspero, moglie e ballerina, (troppo riduttivo identificarli semplicemente come interpreti) che ad ogni esibizione hanno “travolto, accolto, coinvolto” ciascun spettatore, in ogni gesto per nulla casuale ma mai fortuito sebbene due anime possano incontrarsi “per caso”. E a quella coincidenza il tango conferisce passione, ossessione persino amore, dove alle parole si sostituiscono movimenti, gli sguardi “spogliano” l’anima e la musicalità supera l’individualità del singolo. Anche quando il passo prevede più coppie non è difficile percepire a tratti un’unica figura, quasi una sovrapposizione di corpi che lasciano improvvisamente spazio all’uno e all’altro come in un caleidoscopio, un po’ come avviene in una storia d’amore. Un bandoneon quasi sempre protagonista del quartetto musicale, interprete di magiche assonanze e dissonanze tanto frequenti quanto necessarie ad accompagnare quella complicità malinconica che rende il tango unico nel suo genere. Miguel Zotto ha unito due Paesi, l’Italia e l’Argentina, affinché non rappresentino il punto di partenza e di arrivo di genti ma il confine sul quale far scorrere le conoscenze, le identità, le appartenenze di coloro i quali hanno attraversato quella linea diventando cittadini di un nuovo paese e chi in quel paese ci è nato e vuole e può appartenervi con un orizzonte puntato sulle origini. Lo ha realizzato con il tam tam sul “legno” del palcoscenico, sottomesso ai tacchi degli stivali dei gauchos: in fondo ci sarà pure qualcosa che unisce le pampas sudamericane ai nostri pascoli e il ballerino italo-argentino ce lo ha ricordato in una sera di marzo, mentre nell’aria un velo di melanconica speranza ci riportava a casa.
DI TERESA LETTIERI IL 14/03/2017