MA DOVE VAI, BELLEZZA IN BICICLETTA?
MA DOVE VAI, BELLEZZA IN BICICLETTA?
Essere liberi, sempre e comunque, non è una scelta così ovvia come scriverne e parlarne. Se poi è riferita ad una donna, attualmente e paradossalmente, i contorni di questo “status” sono ancora più complicati, soprattutto perché un valore così universale e fondamentale si “decide” di condizionarlo consapevolmente ed inconsapevolmente ad altre scelte. In verità, la libertà dovrebbe rappresentare l’incipit di qualsiasi altra cosa si voglia essere nella propria vita, perché la libertà non è disobbedienza, non è ribellione, non è negazione, non è evasione, ma la consapevolezza di “disporre” di sè stesse senza pensare che per poterlo fare sia necessario contravvenire ad altro. Se dovessi rappresentare la “libertà”, connessa inevitabilmente al rispetto per sé stessa, alla indipendenza, al coraggio, alla sfida, alla coerenza e a molto altro, con un esempio riferito al mondo femminile mi ritornano in mente le donne musulmane di Milano salite su una bici, (proprio lo scorso marzo) per percorrere un breve tragitto nonostante la disapprovazione dell’Imam. Chi non ha mai posseduto una bicicletta da bambino? Chi non l’ hai mai chiesta come cadeau natalizio o per la promozione scolastica? Chi non l’ha mai rubata al papà o al vicino di casa o all’amico dopo averla tanto desiderata? La bicicletta ha rappresentato un sogno per tutti, uomini e donne. Un mezzo per dare concretezza ai primi sogni di libertà di ciascuno. Con la bicicletta ci si organizzava nelle giornate estive per le prime scorribande di stagione; si andava in spiaggia; con la fidanzatina o il ragazzino si raggiungeva il luogo dell’appuntamento. Ricordo la mia prima biciclettina che utilizzavo soprattutto in vacanza, al mare, che mi consentiva di percorrere un viale lunghissimo lontano dal controllo dei miei genitori: per me era una distanza enorme e solo con quel trabiccolo potevo allontanarmi sebbene la sorveglianza non venisse mai elusa e nonostante le mie tenere illusioni sulla presunta fuga. Avere una bici era quindi possedere l’aria, la strada, i luoghi attraversati in solitudine o in compagnia, il cielo e anche le stelle. Era sentire l ‘odore del mare, vedere il colore di fiori, farsi scompigliare dal vento, avvertire l’umido del bosco. Ho ricordato mio padre che inventandosi le scuse più discutibili mi obbligava ad un tragitto che lui poteva controllare. Ho ricordato che molto spesso, quella bicicletta non potevo affatto utilizzarla senza il suo consenso. Ho ricordato l’impossibilità di poter decidere cosa fare della mia vita da bambina. Ho ricordato anche la mia ostinazione, pacata ma costante, nel supplicare una breve pedalata fino alla fine di quel viale animato da gelaterie e giostrine che vedevo scorrere ai lati della mia corsa verso quel piccolo pezzettino di libertà, con il mio vestitino bianco e una rosa ricamata su un lato mentre mi ferivo le caviglie vicino ai pedali ad ogni rotazione senza avvertire dolore, poca cosa rispetto alla mia gioia. Mi sono chiesta se queste sensazioni siano state le stesse di queste donne, private della possibilità di sentire l’aria che pervade il corpo, l’acqua che ti scioglie il trucco, i suoni del quotidiano, mentre a bordo di due ruote vai incontro alle stagioni, ai giorni e agli anni. E mi sono chiesta quanto può essere stato forte il desiderio di queste donne per contravvenire ad un divieto del genere quando la loro vita è fatta di molte altre privazioni, forse ben più devastanti di questa. Ho pensato che forse queste donne hanno scelto un punto di partenza tra i tanti che hanno immaginato e se la bicicletta può essere uno strumento per aumentare la distanza tra il “posso” ed il “non posso”, per disubbidire ad un credo che non le rende “sacre” o di “valore” come sostiene l ‘Imam , è giusto che abbiano cominciato da una passeggiata su due ruote. Una passeggiata che mi è piaciuta immaginare motivata da alcun piglio provocatorio nei confronti di nessuno, nemmeno dello stesso Iman. Una passeggiata di quelle che si decidono al mattino, appena sveglie, dopo il caffè, dopo aver rassettato casa, una semplice domenica mattina, o dopo averla lasciata esattamente nello stesso modo, o dopo aver chiamato una amica per invitarla a uscire. Una passeggiata decisa senza pensare alle conseguenze di una scelta del genere, se non alla pioggia che può prenderti all’improvviso facendoti sciogliere il rimmel dagli occhi. Spero che le donne islamiche non abbiano pensato di farlo, una domenica di marzo, solo per mera contrapposizione alle legge del proprio popolo, per ribellione, senza aver ragionato sulla consapevolezza del proprio sé, della propria individualità, senza aver riconosciuto prima i contorni della propria libertà, senza essersi innanzitutto riconosciute come chiunque altro. Spero che, senza concordare strategie, convocare incontri, meditare sulle giustificazioni da presentare, si siano semplicemente guardate e si siano solo dette “Allora, ragazze, si fa? Alle 10 tutte al solito posto”. Perché per la libertà, per l’emancipazione di un essere vivente, che sia uomo o donna, non dovrebbe essere necessario scomodare l’ONU o le organizzazioni per i diritti dell’uomo, o temere il dissenso del responsabile della propria fede religiosa e le sue eventuali scomuniche. È sufficiente svegliarsi al mattino e sapere di poter prendere una bicicletta.
DI TERESA LETTIERI IL 13/02/2017