
IN RETE, L’INFORMAZIONE DILAGA, LA CULTURA ARRANCA
IN RETE, L’INFORMAZIONE DILAGA, LA CULTURA ARRANCA
E’ innegabile che l’accesso a tutto ciò che è “cultura”, attualmente, sia agevolato da tempi e modi molto “easy”, direbbero gli anglosassoni. Ne è un esempio, pur se spiccio, già l’uso di inflessioni europee che abbondano nel linguaggio comune, spesso inflazionate, che ci fanno sentire culturalmente globalizzati. Ma è ovviamente solo una parvenza, dietro alla quale si nascondono punti di gap ancora troppo profondi. Questo correre lungo la rete di informazioni, notizie, conoscenze, usi, costumi, modi di dire e pensare conditi da personalizzazioni, così come è giusto che sia a seconda della “parabolica” utilizzata, sembra che abbia per certi versi svilito, per altri generalizzato e per altri ancora, ridimensionato il concetto di cultura al quale eravamo abituati(almeno per chi ha frequentazioni nel secolo scorso). Il sopravvento della conoscenza, nel senso ampio del termine, di impronta “smart” (rieccoci!) ha probabilmente disatteso ad uno dei livelli fondamentali della modernità contemporanea, ovvero alla ricontestualizzazione dei canoni classici del sapere, con i pro e i contro che irrimediabilmente accompagnano i processi evolutivi (o involutivi?). Un tempo era affidato alle civiltà (quelle che ci insegnavano a scuola per intenderci) la trasmissione del proprio patrimonio culturale che, se pur con i tempi dettati dalla storia, diventava conoscenza e insegnamento per le altre e per quelle future attraverso un processo di commistione, di confronto, di accettazione, di divulgazione, di ricombinazione accompagnato dascontri e guerre, alleanze e compromessi, che pur conservando l’individualità di quel sapere ne generava altro. Oggi, la sensazione che avverto, vivendo le dinamiche in atto, è l’assenza di dialogo all’interno della medesima cultura d’appartenenza, sostenuto dalla velocità con la quale si muove nei rispettivi circuiti, che non può che limitare o, nella peggiore delle ipotesi, azzerare qualsiasi forma di relazione con le altre. Certo, se ci pensiamo bene è un paradosso. Disponiamo di una rete che ci porta a conoscere ciò che probabilmente non si potrebbe se non si vivessero almeno dieci vite, che ci consente di “approdare” ad esperienze diversissime in qualsiasi posto del mondo, che ci fa assistere a sperimentazioni indimenticabili, e tutto come se fossimo in una macchina del tempo (e dello spazio) ma che contemporaneamente genera contraddizioni di dimensioni altrettanto inimmaginabili. Quali? Se osserviamo solo la sfera “domestica” della nostra cultura, quella della nostra civiltà, si comprende che non è pensabile affidare alla tempistica, alla quantità di conoscenze , alla disponibilità di opportunità e di accessi, il consolidamento, la fruibilità e la diffusione del sapere di un paese, ancor più se fuori confine. C’è molto altro che occorre, che forse c’era ed è andato perduto, che forse è solo accantonato, che probabilmente è stato perduto consapevolmente e volutamente, approfittando di meccanismi che, oltre a favorire una libera ed indiscriminata circolazione della cultura, l’hanno ridotta, in molte occasioni, ad un link enciclopedico o ad uno status in cui “identificarsi” per ottemperare ad una propria finalità.Di esempi ne potrei annoverare diversi. La cultura politica, ad esempio. Mai, credo, che il Paese abbia raggiunto livelli di così basso profilo di sapere politico e le condizioni in cui versiamo, sotto diversi punti di osservazione, lo dimostrano ampiamente. Ovviamente non mi riferisco ai vari schieramento politici, non interessa, piuttosto alla formazione della classe dirigente che attualmente gestisce le sorti della penisola, priva di un programma adeguato capace di fronteggiare gli accadimenti “improvvisi” (la crisi economica?) quanto le problematiche che sorgono ormai quotidianamente, mentre la forbice tra ricchi e poveri si allarga a ritmi incalzanti, il tasso di disoccupazione cresce in maniera preoccupante, i consumi e la produzione sono sottoposti ad un andamento della domanda e dell’offerta dalla instabilità allarmante (si parla di nuovo di deflazione) e, ancora, mentre la mancanza di aggregazione del popolo intorno ad obiettivi comuni viene coltivata proprio dalla classe politica ed assecondata dallo scarso livello culturale dell’italiano medio. E qui entra in gioco quella che ci riguarda ancora più da vicino, la cultura civica. Pressoché assente o impercettibile se non nei casi in cui ci tocca direttamente. L’individualismo domina sul senso di collettività ed il culto dell’iosupera la pratica del noi. Di comunità si sente parlare solo in rare occasioni, quelle celebrative o commemorative come se fosse un valore astratto che a furia di essere semplicemente ricordato e non praticato rimane nell’immaginario di ogni cittadino mentre la politica lo utilizza opportunamente per generare divisioni di popolo alle quali i cittadini concorrono , pena esclusione del favore di turno senza pensare che il bene comune riconduce al bene del singolo. Sulla cultura dell’appartenenza si potrebbe parlare per ore, orfani di una identità che ci siamo lasciati togliere con la scusa della globalizzazione, vittime di un impeto temporaneo, di un’onda che ci spinge ad identificarsi con chi può essere rappresentativo ai nostri occhi, di cosa, non importa. Conta essere assimilati ad un branco che può restituirci una identità fittizia che non è la nostra ma che a noi serve, qualunque essa sia per non risultare anonimi. E la solidarietà?Siamo invischiati in un continuo conflitto con l’altro, che sia il capo-condomino o l’ extracomunitario che ci chiede qualche euro dinanzi il supermercato, non riconosciamo la solidarietà verso un disagio che si tratti di povertà, di disabilità o difficoltà in generale. La cultura del perdono,nel senso laico del termine, latita esattamente come quella dell’affettività e, probabilmente rappresentano il tutti gli aspetti che costituisconoil sapere di un popolo. L’accettazione dell’altro per quello che vogliamo che sia per noi e non per quello che è ha acuito la mancanza di dialogo alla quale mi riferivo inizialmente, forse per non soffrire una delusione, un rifiuto, per evitare i confronti e la crescita. Per apparire forti e non offrire la debolezza personale all’altro, per impedirgli di usarla contro di noi.Che il sapere possa essere alla portata di tutti può rappresentare un valore aggiunto solo se non perde le caratteristiche che lo rendono capace di assolvere agli obiettivi e alla funzioni di un mondo globalizzato, dove per globalizzazione s’intende una convergenza di respiro macro su quelli che sono i tematismi che accomunano qualsiasi civiltà. Attualmente, tutto ciò che ha sempre riguardato la storia di un popolo come i flussi migratori, le commistioni religiose, le nuove frontiere e le risorse emergenti vanno coniugate all’interno di un contenitore che ha solo confini fittizi, dove i limiti geografici sono stati superati in funzione di un sistema molto più ampio che non deve comunque perdere di vista quelli che sono stati i dogmi che in fondo, nel bene e nel male, hanno consentito alle varie civiltà di affermarsi nei corsi dei secoli. Di una cultura rapida o tornando all’apertura “easy” ce n’è la necessità, per renderla portatile, per metterla nel taschino della nostra giacca ed accedervi in qualsiasi momento e ovunque. Di una cultura qualunquista, che assurge a riempire le pagine di una ricerca enciclopedica o a rappresentare un link del web non se ne avverte il bisogno se non per le finalità a cui risponde. Allora cosa è indispensabile che avvenga affinchè un popolo riconosca e si riconosca nella sua cultura e possa renderla disponibile? Credo che non sia cambiato molto rispetto al passato, in termini di bisogni, di certo, attualmente i tecnicismi hanno “oscurato” (spero) quella funzione soprattutto formativa della cultura, quella che si occupa non solo della componente intellettiva dell’uomo quanto di quella emotiva. Se di cultura 3.0 abbiamo bisogno, forse una ripassata dei capitoli precedenti diventa quasi indispensabile! DI TERESA LETTIERI IL 09/01/2017