
IL MONDO E’ DEI MOSTRI
IL MONDO E’ DEI MOSTRI
Play. Una telecamera riprende. Scorre sulle immagini come se fosse un reportage su Central Park, sulla Savana, o sulle orchidee della Malesia. Invece non è un documentario anche se lo proietteranno come se lo fosse, lo manderanno in onda centinaia di volte perché il mondo intero guardi, i capi di Stato si adoperino nell’esercizio della solidarietà a tratti interrotta da una probabile commozione reclamando una azione risolutiva della questione, il rappresentante dell’Unicef piangendo dichiari che “oggi è finita l’umanità”, noi stamattina ne parliamo in ufficio, per strada, al supermercato, tra orrore e indifferenza, ripetendo sempre le stesse cose, le stesse invettive contro qualcuno, con lo stesso rammarico cambiando solo bandiera, se ancora qualcuno le espone a turnazione. La tv, i social continuano a far girare le immagini. Almeno 24 ore, forse più, è quasi doveroso, sia per la cronaca, sia per riempire gli spazi previsti dalla programmazione. Il documentario è sull’uso del gas Sarin, un “insetticida” di quelli che si usano quando si vuole fare una bella pulizia su di un campo per liberarlo da parassiti che possono compromettere l’esito della produzione. Passa un aereo, pochi minuti e la scìa si deposita su tutto ciò che trova di sotto. A Idlib, in Siria, ha trovato bambini, uomini, donne, case, ospedali. No, non si è sbagliato. Non c’è stato un errore. Affatto. Quelli sono i parassiti di cui liberarsi, i ribelli da ammazzare in una delle poche aree della Siria ancora in mano ai rivoltosi di una guerra inutile come tutte le guerre. Il terreno è bianco, di polvere, a tratti attraversato da pozzanghere fangose. E’ la polvere che si mischia all’acqua spruzzata da un uomo che con una pompa si muoveovunque come se fosse un’ operazione assolutamente normale. Forse ha anche una sigaretta in bocca, per ammazzare la noia di quel compito che gli hanno affidato. Non mostra dolore mentre si gira, alza, abbassa quell’aggeggio, aumenta la gittata dell’acqua, in fondo perché dovrebbe. Forse altre volte ancora si è trovato ad eseguire quell’operazione, ad aspergere corpi sparsi a terra di acqua o a caricare sul cassone di un furgoncino uomini, donne, bambini ormai esanimi. Il dolore è diventato il vaccino per quell’uomo, per continuare a vivere prima che una bomba o del gas lo finisca definitivamente. Lui non lo sa perché questo gioco al massacro è come una lotteria, come una roulette russa. Non è detto che capiti a te e se non ti capita ti trovi a spargere acqua. Acqua su corpi nel tentativo di lavarli, di pulirli, di rianimarli mentre intorno a lui, chi è riuscito a sopravvivere alla scia del raid aereo si muove frettolosamente, grida, si agita, piange, solleva corpi che danno un cenno di vita, li carica e via verso l’ospedale. E lui continua a spargere acqua, insiste dove stanno tentando un massaggio cardiaco, servisse a riprenderlo quel corpo, nudo, con i pantaloni abbassati, senza scarpe, dove la dignità non ha alcun valore se una agonia così atroce, una morte così dolorosa cancella tutti i segni di dignità e umanità. La telecamera riprende, passa tra i corpi, tra chi con gli occhi sbarrati e le mani in preghiera invoca il suo Dio e aspetta che quel respiro affannoso, pesante sia l’ultimo; chi ha la bocca bianca per il rivolo di schiuma emerso sulle labbra e che corre a terra senza che possa pulirsi; chi non ha avuto il tempo di capire perché è stato freddato all’istante. Si fa strada quasi fosse un drone che vola basso sui rantoli dei tanti bambini colti all’improvviso, che chiedono soccorso con gli occhi sbarrati dal gas, i capelli bagnati da quell’uomo che continua ad innaffiarli come se fossero fiori appassiti, mentre le loro mani o braccia o piedi si muovono a scatti, di quel movimento incontrollato che li rende ancora reattivi, ma solo apparentemente. Riprende i soccorritori che girano e muovono quei corpi nel tentativo di capire se c’è ancora una speranza a quel flebile respiro, intermittente ma presente in alcuni. Per molti altri c’è solo un furgone dove si accumulano, l’uno sull’altro, senza distinzione di sesso e di età. Bambini insieme a uomini tanto oramai non serve distinguere, occorre muoversi e raccattare tutto ciò che si trova lungo il percorso una volta che non c’è più alcuna possibilità di ripresa. La telecamera arriva in ospedale, gira tra i volti di assistenti e medici indaffarati tra una barella ed un’altra, tra un tubo da ficcare in gola e l’ossigeno da insufflare ad un bambino che è riuscito a chiudere gli occhi e sta riprendendo lentamente il respiro dopo averlo rincorso per molto tempo, si vede, è stanco ma ce l’ha fatta. Stop. L’umanità è finita da tempo. Possiamo tornare alle nostre faccende. Al prossimo orrore. DI TERESA LETTIERI IL 05/04/2017