
ALIANO
ALIANO
Sono tornata ad Aliano dopo qualche anno dall’ultima volta. Era il 2009 e ci accompagnai un noto professore paesaggista, veneto, per delle ricerche nella zona dei calanchi. Attraversammo il Parco di Gallipoli Cognato, immense cerrete che raccontavano il rito del “maggio” , podoliche in lenta processione, baluardi indiscusse di un territorio e di un tempo che qualsiasi passante subisce come ammaliato, paesi spesso così silenziosi da sembrare cartoline appiccicate per non dimenticarne l’esistenza. Di allora mi colpì lo sguardo di quel ricercatore, commosso, stupito, quasi smarrito e perso nell’immensità del deserto di “luna” della valle sulla quale si affacciava il “paese” di Carlo Levi. Ci sono ritornata, da sola, perché quando passi sotto la rupe sulla quale sono arroccate quelle poche case quasi confuse con il giallo della creta, che si staglia d’estate come una lamina scintillante e in autunno si spegne per darsi tempo, è difficile resistere alla tentazione di tornare indietro o proseguire verso altro. Per un attimo pensi a ciò che hai lasciato alle tue spalle prima di arrivare su quella strada che non ha modificato il suo corso di mulattiera, forse nemmeno i fossi, rattoppati alla meno peggio come il ponte d’ingresso che apre al paese. Pensi ai fiumi, un manto di pietre bianche dove il desiderio di vita è così forte che la vegetazione, seppure rada, non vuole abbandonare le “radici” che la legano a quel posto, dove qualche ruscello sopravvissuto all’arsura del tempo riesce ancora a dare un senso a quella immensa morgia piatta. Allora quella desolazione speri che non ti segua quando comincia la salita verso le case, speri che rimanga giù ad aspettarti come se diventasse difficile arrivare anche in cima, perché è stanca di decimare alberi, cespugli, acque e persone. Invece te la ritrovi dinanzi a darti il passo fino a quando i tuoi occhi hanno bisogno di cercare l’anima di quei luoghi. E la trovi, in quella terra gialla, con il corpo spaccato, a tratti segnata da rigurgiti di verde e percorsa dalle tracce dei rivoli di pioggia che scavano ogni volta, impietosi e severi. Quasi fossero i solchi percorsi da lacrime, di chi ha dovuto arrendersi a quella natura che indifferente alla caparbietà dell’uomo riesce sempre e comunque a dominare su qualsiasi sforzo, qualsiasi pratica ingegnosa, qualsiasi compromesso pensato per renderla più mansueta. Gli oliveti si stagliano quasi in una lotta corpo a corpo contro quelle discese ripide, a volte modellate e sinuose, spesso torrioni di difesa che intimoriscono anche gli uccelli che tentano di planarvi sopra tanto sono aride e refrattarie a qualsiasi cosa voglia attecchire o semplicemente offrirsi in segno di pace. E nell’anfratto dove l ultimo olivo “difende” tutti gli altri dall’invadenza di quella terra tenace ma fragile ti rendi conto che a volte, opporsi strenuamente ai ritmi della natura è vano ed inutile. Ti detta i tempi e i modi con la sua immobilità, ti dice come e perché con il suo silenzio, ti dice quando e dove con la sua severità. Non c’è scampo al suo essere, non c’è soluzione al suo fare se non “occupare” timidamente ciò che ti consente. Si. Perché in fondo la natura ti permette sempre di trovare una collocazione a ciò che vive e vuole vivere in lei, non si accanisce se non è provocata, non si oppone se non è oltraggiata. E se la lasci libera ti riconosce, nonostante le offese e ti premia con opportunità che nessuno darebbe. Non è il premio che chi lavora quella terra si aspetta, ma è la ricompensa di quel filo d’erba che sbuca sfidando quel giallo ostico con il suo tenero verde, quasi a mediare le velleità incomprese del ferro che vuole dominarla. E di quella argilla che tracima qualsiasi sogno, ambizione, ne sapeva Carlo Levi che annunciava per la sua casa, “l’ultima sul ciglio del precipizio” dopo che la chiesa della Madonna degli Angeli “era crollata nel burrone” , il destino di chi cerca di sfidare ciò che non può essere sfidato.
“Gagliano a prima vista, non sembra un paese, ma un piccolo insieme di casette bianche con una pretesa nella loro miseria”
Ho cercato questa pretesa tra i vicoli di Aliano dopo aver lasciato la macchina in una piazzetta semideserta, mentre tre persone di mezza età mi osservavano così come si scrutano gli “stranieri” che arrivano in paese. Ho immaginato che la pretesa che aveva colpito Carlo Levi arrivando ad Aliano non fosse diversa da quella percepita in qualsiasi altro luogo della Lucania a quel tempo, quella che si respirava appena giunti alle prime pietre dei nostri paesini, ai primi abitanti che sapevano già di un arrivo al solo rumore del mezzo, qualunque fosse, e pronti sull’uscio di casa per sapere e farti sapere che eri il benvenuto. E in quella accoglienza si manifestava subìto la pretesa dell’essere “lucani” , “padroni” di quel posto, come può essere “padrone” chi ama, chi cura, chi si occupa e preoccupa del proprio, chi chiede e restituisce per poter richiedere, sapendo di ottenere da una terra ostica ma non dimentica dei propri figli. Una pretesa fatta di orgoglio, di identità, di attaccamento, di sacrificio, mostrata senza difesa, quasi un avvertimento, più crudo della stessa miseria. Io non l’ho trovata, nonostante le abitazioni carine, in pietra. Nonostante le case-albergo ristrutturate per accogliere i turisti. Nonostante il percorso che porta a Carlo Levi e ai luoghi che ha vissuto, frequentato e descritto. Ho trovato, in una giornata di novembre, intorno all’una del pomeriggio, un silenzio rotto dagli spiccioli tintinnanti al banco del forno nella piazzetta e tre birre che si incrociavano raccontando quello che era stato. Troppo poco per qualsiasi pretesa, anche lieve, che è ormai ostaggio di quella terra gialla, di quei calanchi a volte inerbiti così forti da “popolare” Aliano e custodirne le poche anime rimaste. Cristo si è fermato ad Eboli? ……Forse gli abbiamo complicato la strada per proseguire. (foto Altervista)
DI TERESA LETTIERI IL 16/11/2016