QUELLA FICTION CHE CHIUDE LA GIORNATA
Quanto ci piace a noi italiani la fiction? A noi non piace! Noi la fiction la facciamo e la viviamo! Ne siamo protagonisti, registi, sceneggiatori, costumisti, in una parola la fiction siamo noi. E se dovesse capitare, per caso, di passare per semplici comparse sappiamo anche come trasformarci in ruoli difficili da dimenticare. Ed è stato molto difficile, per una giovane coppia di Domodossola, dimenticare l’avventura di una notte mentre andava in onda la serie di Rosy Abbate, la mafiosa siciliana nota al pubblico delle ore 21 oramai alla terza serie, tempestata da continue telefonate, dopo che un numero di cellulare era apparso durante una scena. Il loro. Probabilmente la produzione ha sottovalutato il fatto che potesse appartenere a qualcuno ed ha evitato le verifiche del caso e gli accorgimenti che si adottano per scongiurare questi inconvenienti, come omettere parzialmente il numero o farlo anticipare da cifre farlocche. Fatto sta che i due malcapitati, lei peraltro incinta all’ottavo mese, ne hanno sentite di tutti i colori: insulti, parolacce, raccomandazioni, domande sulla loro presunta appartenenza mafiosa, informazioni sull’Abbate, fino al clou, quando è arrivata la minaccia di morte. Non a loro ovviamente, ma alla mafiosa, domiciliata in casa dei due piemontesi secondo alcuni italiani “presi” (nel senso di “andati di testa” ) della serie televisiva. Capisco che può essere tanto appassionante da sentirsi parte di ciò che viene rappresentato nelle fiction, ma arrivare a confondere la realtà con la fantasia, perché di fantasia ce n’è tanta per quanto possa rispecchiare quasi fedelmente il vissuto con riferimenti a fatti accaduti, ce ne vuole. Così come non si può pensare che sia una produzione da Oscar, per quanto ben fatta, capace di travolgere così intensamente chi la segue. Recentemente la fiction rappresenta uno dei programmi più seguiti dall’italiano medio, quello che rientra dal lavoro dopo una giornata infinita e fitta di impegni, problemi, lagne; quello che trascorre tutto il tempo in casa, con il televisore sempre acceso che gli fa compagnia, quello che, in poche parole, vuole staccare senza interrompere il filo con il mondo esterno. Non segue SuperQuark perché troppo impegnativo per le sinapsi, detesta la tribune politiche perché dovrebbe ricominciare con i litigi e le proteste che già sopporta durante il giorno, non tollera le trasmissioni musicali perché Carlo Conti è troppo abbronzato e lui rosica per le vacanze che mancano da circa 5 anni (ignora i Tan Club), s’innervosisce con i quiz perché se ci prova da casa perde lo stesso e si sente sfigato e, quindi segue la fiction. Anche perché le reti televisive cominciano un mese prima a lanciare gli spot per annunciare una nuova serie o la continuazione di una di successo, ragion per cui, come per le partite di calcio, la preparazione all’evento si avverte. I rientri dal lavoro sono accelerati; alle casse dei supermercati si scalpita in coda alla cassa mentre si giubila urbis et orbis se mai riassumendo le puntate precedenti (anche se non frega a nessuno) tra una pizza surgelata e una Peroncino caldo; in ufficio si divulga la programmazione a reti unificate, nel senso che ogni televisore di casa sarà sintonizzato sulla fiction, dovesse accadere qualcosa proprio mentre si passa dal bagno alla camera da letto; si stacca il cellulare per riattivarlo durante la pubblicità, i commenti via sms e i rapidi whattApp sono d’uopo. Insomma, alla fiction non ci si sottrae. Eppure per svagarsi si potrebbe ambire davvero a qualcosa di più interessante come una parola crociata, un libro, anche di favole o a un giro su Google Earth per osservare il Petito Moreno. Le fiction, con lo svago, in fondo non credo abbiano molto da dividere. C’è sempre una malattia, di qualsiasi ordine e grado, una storia d’amore travagliata o in travaglio che non vede mai la luce, una rapina a mano armata con omicidio del barista ( spesso), un ispettore di polizia sufficientemente figo così tira pure un po’ di pubblico femminile dai 45 ai 60 anni (che è la fascia d’età più scalpitante), un tradimento, o meglio più volte, una storia di corna (che rende meglio di tradimento, ormai in disuso) un prete per mansioni diverse (o celebra un matrimonio, o benedice le salme, o confessa) un po’ come il multiuso in cucina. Di recente, le forze dell’ordine hanno colmato un gap affatto trascurabile, ma non per il fascino della divisa (dopo Ufficiale e Gentiluomo e un Gere di tutto rispetto le divise non si usano nemmeno per sposarsi) quanto per l’azione, il mistero, la crudeltà degli avvenimenti, le catture, il buono contro il cattivo, il rassicurante braccio della legge (quando arriva). E noi, poveri italiani che non abbiamo ancora le balle piene di tragedie, disastri, corna e malattie non solo ci piazziamo davanti al televisore ma al primo numero di cellulare che appare su un bigliettino telefoniamo, chissà ci risponde il diretto interessato, chiunque esso sia, per dirci come va a finire o, meglio ancora, interagiamo senza temere la sua anima mafiosa. Continuiamo a dissociarci dalla realtà per entrarne in un’altra altrettanto infame. Ma non era meglio la Bonaccorti e le 13.457 palline dentro la boccia di vetro da indovinare?

0DI TERESA LETTIERI IL 18/11/2017